“Risolvere i problemi con le armi per sopraffare l’altro non è la strada da seguire. Qui in Bosnia-Erzegovina (Bih) abbiamo sperimentato il pane amaro della guerra, dei profughi, l’orrore della pulizia etnica. Sappiamo bene cosa significa e siamo vicini al popolo ucraino. Preghiamo che finisca presto la guerra”: don Miljenko Anicic, è il direttore della Caritas della diocesi di Banja Luka. Lo incontriamo nel suo ufficio nella capitale della Repubblica Srspka, per farci raccontare l’impegno della Caritas durante la guerra in Bosnia, scoppiata a
marzo di trenta anni fa. Ma prima il suo pensiero corre all’Ucraina dove, dice, “vedo diverse analogie con quanto è avvenuto da noi in Bosnia: attacchi alle abitazioni, alle persone, maltrattamenti e torture, assedi, bombardamenti, uccisioni deliberate. La gente in fuga”. Il rischio che la Bosnia possa diventare un altro fronte di guerra non è così remoto, per il sacerdote, anche alla luce delle spinte ‘secessioniste’ manifestate in diversi momenti da Milorad Dodik, uno dei tre presidenti della Bosnia (Bih), rappresentante dell’etnia serba, capo del partito indipendentista Snsd (Alleanza dei socialdemocratici indipendenti), molto vicino alla Russia di Vladimir Putin che foraggia le fazioni più nazionaliste dei serbo-bosniaci. Insomma, i serbo-bosniaci della Repubblica Srpska come i separatisti filorussi del Donbass. Se quella russa nei Balcani occidentali sia solo una provocazione lo si vedrà, certa è l’intenzione del Cremlino di giocare in questa area di tensioni sempre vive, un ruolo al pari dell’Ue, degli Usa e della Nato. “Quella percorsa da Dodik è una strada pericolosa. Lo scopo della propaganda politica e dei media allineati è creare tensioni. Probabilmente non si arriverà a decretare l’indipendenza della Repubblica Srspka, ma intanto lo stallo politico si riflette sulla società. Dobbiamo continuare a dare aiuto e sostegno alla popolazione. Non ci siamo mai fermati dallo scoppio della guerra”.
La pulizia etnica. Le immagini di oggi si sommano ai ricordi di ieri con una certezza su tutte: “a Banja Luka non possiamo parlare di vera guerra ma di pulizia etnica, una delle espressioni più crudeli del conflitto in Bosnia”. A danno dei croati cattolici.
“All’inizio c’è stata la persecuzione delle persone, delle minoranze, non solo croate, poi è toccato ai sacerdoti, religiosi e suore, catturati, uccisi, malmenati, chiese distrutte. Gente che ha subito danni e ruberie dai propri vicini. I cattolici da qui dovevano andarsene”
spiega don Anicic che, con un mezzo sorriso dal sapore amaro, aggiunge: “Ciò che è paradossale è che, in quel tempo, mentre si facevano saltare in aria le nostre chiese alla Caritas veniva permesso di portare aiuto e lavorare. La Caritas sempre aperta, come oggi, a tutti senza distinzioni, a gente che chiedeva da mangiare, aiuto a fuggire, consigli soprattutto a tanti giovani”.
“Aiutando cercavamo di mostrare che stare insieme era possibile senza odiarsi”.
“Il messaggio che la Chiesa cattolica era lì per tutti è passato con chiarezza. Abbiamo aiutato coppie miste, ortodosse musulmane che nessuno aiutava e ancora oggi lo facciamo, perché è il messaggio del Vangelo. La gente ricorda quello che la Caritas ha fatto in questi anni. Il bene cammina”. “All’inizio della guerra avevamo trasferito la Caritas da Banja Luka a Zagabria da dove organizzavamo gli aiuti umanitari. Lo scopo principale, allora, era garantire aiuti per la sopravvivenza. Da Zagabria siamo riusciti a far transitare 127 convogli di aiuti arrivati da tutta Europa. Ogni Convoglio era composto da 10 Tir” ricorda don Anicic. Gli aiuti erano anche a domicilio “per le persone più fragili e vulnerabili come anziani e malati. Per questi ultimi erano operativi 45 medici e infermieri rimasti senza lavoro perché non erano serbi. Per un periodo abbiamo gestito anche un ufficio postale attraverso il quale arrivavano soldi dai croati all’estero”.
Semi di rinascita. Durante la guerra si gettavano semi di rinascita: “Come Caritas abbiamo avviato attività agricole, restaurato case e immobili, organizzato cooperative edili per la ricostruzione di abitazioni. Abbiamo ristrutturato più di 2400 case e istituito anche un ufficio legale che curava la restituzione delle case dei croati occupate dai serbi che non volevano restituirle”. Tanto bene fatto, però, non ha impedito a Banja Luka di avere oggi il 95% dei suoi abitanti di etnia serba. Prima della guerra la percentuale era del 54%, il 46% di altre etnie.
L’olio della speranza. “Ma il bene continua a camminare con chi ha deciso di rimanere e, dopo tanti anni, non è tutto così nero” ripete convinto don Anicic. Lo sguardo è rivolto a vecchi e nuovi progetti messi in campo dalla Caritas: la cooperativa agricola Livac, fondata più di 15 anni fa, dopo la fine della guerra, col supporto anche di Caritas Mantova, è uno di questi. La Cooperativa si occupa di allevamento bovino per la produzione di latte, formaggio e carne. Essa dà opportunità di lavoro alle famiglie della zona e dona carne alle mense dei rifugiati reinvestendo gli utili nelle attività sociali di Caritas Banja Luka. I suoi 20 dipendenti si prendono cura dei 150 ettari di terreno della cooperativa che dà lavoro anche a oltre 100 produttori locali, dai quali compra il necessario per la gestione della stalla (fieno, foraggi) oppure li impiega nei lavori stagionali di semina e raccolta. Progetti avviati sono anche una casa di riposo per persone anziane e un asilo, dove insegnare rispetto e tolleranza a tutti i bambini anche delle altre etnie. “Tutto questo dimostra che tornare a vivere insieme è possibile”, sottolinea il direttore della Caritas che annuncia, per il 25 e 26 marzo, un grande simposio per lanciare il “Centro europeo per la pace e il dialogo interreligioso e interetnico”. A 30 anni dalla guerra la presenza cattolica a Banja Luka “resta un lume che fatica restare acceso, a causa dei venti contrari, ma che non si spegne grazie all’olio donato da tante persone di buona volontà”.